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A Messina, il mastro birraio è un monaco: l’impresa di fratel Pippo

MESSINA. Quando il Monastero non è un eremo, chiuso nell'ascetismo, ma palpita di vita e di operosa attività. Dalla provincia di Milano, un monaco messinese racconta la sua storia e quella di una comunità religiosa, che, oltre a pregare, lavora, produce birra e fa impresa. Lui è fratel Pippo, al secolo Giuseppe La Rocca. Ha 54 anni e, da quasi 30, vive nel Monastero benedettino dei Santi Pietro e Paolo, fondato nel 1971. Laureato in Architettura al Politecnico, poi folgorato sulla via di Damasco, anzi di Buccinasco, alla Cascinazza, dove si trova il centro monastico. Da allora, niente più disegni e progetti esecutivi, ma il fervore religioso e il lavoro, applicando la regola benedettina "Ora et labora", attualizzata. Fratel Pippo ha la mansione ufficiale di cuoco ma, come tutti, al bisogno, dà una mano nel birrificio. Il Monastero, infatti, dal 2008 ha avviato la produzione di un'ottima birra artigianale, secondo il metodo belga. Le bottiglie vengono commercializzate con marchio "La Cascinazza", vendute "on line" (www.birracascinazza.it) e in alcune botteghe ed enoteche del Centro-nord. Il birrificio è l'unico in Italia a essere gestito soltanto dai monaci, senza aiutanti esterni, nel solco di un'antica tradizione medioevale. La giornata dei 17 frati è lunga e laboriosa, scandita dai tempi della meditazione e della preghiera, con sette appuntamenti di raccoglimento, ma pure da quelli di un'azienda. Sveglia alle cinque e tutti al lavoro. Pazienza certosina, anzi benedettina, a cominciare dalla scelta delle materie prime. Poi il mosto, la fermentazione, l'imbottigliamento. Il risultato è un prodotto d'eccellenza, di nicchia, per intenditori, circa 25.000 bottiglie l'anno. Fratel Pippo si rivela un simpaticone. Accorcia subito le distanze, fisiche e metafisiche. "Niente lei, diamoci il tu". Come tutti gli architetti, è un po' filosofo e creativo, ma pure dotato di vena poetica. Appena si parla della Sicilia, s'illumina d'immenso. Un fiume in piena: dal terremoto del 1908 agli stucchi di Serpotta, a Bufalino, Consolo, alla massoneria e alle stragi di mafia.
Da architetto a frate cuoco ce ne corre di acqua sotto i ponti, anzi di birra, com'è avvenuta la vocazione?
«Ero un giovane non particolarmente interessato alla religione, ma molto inquieto per l'assenza di un senso della vita. I miei ex compagni di liceo erano quasi tutti politicizzati, qualcuno destinato a militare tra i terroristi. Galeotto, per me, fu l'incontro con un gruppo di ragazzi di Comunione e liberazione. La loro fede, vissuta con gesti spontanei e autentici, mi colpì. Fondamentale, nella mia formazione, è stato don Luigi Giussani. Dall'amicizia con lui, sono giunto al Monastero. La mia famiglia rimase sconvolta, mi fece la guerra. Poi si rassegnò e capì».
L'idea della birra e dei frati imprenditori come nasce? «Per la sopravvivenza del Monastero. L'azienda agricola, già da anni, non era sufficiente a mantenere la comunità». Niente internet, cellulare e televisione, è la regola "ora et labora" nel 2014. «Ognuno di noi è qui perché risponde a una chiamata. Non c'è costrizione. Non credo di essere un fanatico o un visionario. Sono una persona curiosa, che ama conoscere, scoprire, sin da quando ero ragazzo e, nelle giornate di sciopero a scuola, me ne andavo in giro tra i monumenti. C'è un aspetto di sacrificio, ma paradossalmente il monastero diventa, per noi, una sorgente di vita che ci fa possedere anche ciò che non abbiamo».
Da Milano mantiene i contatti con Messina. «Comunque, non sto fuori dal mondo. Leggo qualche giornale e mi sento con parenti e amici. Sono molto legato alla mia terra, ai ricordi dell'adolescenza: il nonno sarto, in via Garibaldi; il papà, capo della stazione marittima; la mamma, che ci ha lasciato una collezione di foto preterremoto. Custodisco l'immagine dello Stretto, Messina è nel mio cuore».

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