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Operazione Beta a Messina, Tribunale della Libertà: legame fra mafia e colletti bianchi

MESSINA. Il Tribunale della libertà di Messina ha confermato l'impianto accusatorio dell'operazione Beta: la presenza di una 'cellula' criminale locale che si avvaleva anche di imprenditori e di colletti bianchi integrando le caratteristiche dell'associazione mafiosa.

L'indagine, coordinata dal procuratore aggiunto Sebastiano Ardita e dai sostituti Maria Pellegrino Liliana Todaro e Antonio Carchietti, aveva portato in carcere nei giorni scorsi 30 persone, svelando l'esistenza di una cellula di cosa nostra a Messina, sovraordinata ai gruppi mafiosi operanti nella provincia, che si avvaleva di professionisti imprenditori e funzionari pubblici per gestire rilevanti attività economiche.

Nel corso delle udienze dinanzi al Tribunale del riesame l'accusa ha depositato altre intercettazioni da cui emergono nuovi affari in ambito di riciclaggio internazionale.

Sono state tutte pienamente confermate le contestazioni di associazione mafiosa che sostenevano le misure cautelari per Vincenzo e Francesco Romeo, ritenuti al vertice della famiglia mafiosa, nonché, tra gli altri, di Pasquale Romeo, Benedetto Romeo, Antonio Romeo, Stefano Barbera, Marco Daidone e Nunzio Laganà. Rimangono agli arresti domiciliari per concorso esterno in associazione mafiosa anche l'imprenditore Carlo Borella, ex presidente dei costruttori di Messina e l'avvocato Andrea Lo Castro.

Per Lo Castro il Tribunale del riesame ha confermato anche falsa intestazione dell'appartamento del complesso Nuovo Parnaso, che secondo l'accusa sarebbe stato acquistato con denaro del capo mafia Vincenzo Romeo ed intestato al fratello Gianluca, ritenendo però non compatibile l'ulteriore contestazione di riciclaggio.

Agli arresti domiciliari per corruzione è il tecnico comunale, ingegner Cucinotta. Ai domiciliari anche l'imprenditore Rosario Cappuccio per l'estorsione a un altro imprenditore. Con riferimento a tale ultimo reato nei giorni scorsi erano stati rimessi in libertà i due imprenditori del nord - Italo Nebbiolo e Guarneri - poiche si erano dimessi dalle cariche rivestite nel consorzio Cic che, secondo l'accusa, aveva fatto ricorso alla famiglia mafiosa di cosa nostra per risolvere una controversia economica.

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