Assunzioni e scelte commerciali imposte dai boss, le mani della mafia sulle imprese a Messina: 8 arresti
Avrebbero imposto con le minacce e la forza ad alcuni imprenditori le persone da assumere ma anche scelte da fare, come ad esempio interrompere la vendita di carni. Così un gruppo criminale legato al clan Spartà teneva sotto scacco la zona di Messina Sud nella zona di Santa Lucia Sopra Contesse. Sono state arrestate otto persone accusate di associazione per delinquere di tipo mafioso, estorsione, usura, intestazione fittizia di beni e violazioni degli obblighi della sorveglianza speciale, tutti aggravati dal metodo mafioso. Per sette persone è stato disposto il provvedimento di custodia cautelare in carcere eseguito dai carabinieri del comando provinciale di Messina. Si tratta di Angelo, Bonasera, attualmente detenuto presso il carcere di Messina Gazzi, per altra causa; Antonio Caliò; Giuseppe Cambria, Antonio Cambria Scimone; Tommaso Ferro; Lorenzo Guarnera, attualmente detenuto presso il carcere di Caltanissetta per altra causa; Raimondo Messina, attualmente detenuto presso il carcere di Milano-Opera, per altra causa. Mentre sono stati disposti gli arresti domiciliari per Alfio Russo. Secondo gli inquirenti il gruppo mafioso sarebbe stato capace di interferire e di condizionare l'attività di alcuni imprenditori messinesi, non solo imponendo assunzioni di personale indicato dai sodali, ma anche imponendo loro le scelte imprenditoriali. In particolare, è stato accertato nel corso dell'inchiesta come, per eliminare del tutto la concorrenza al bar “il Veliero”, riconducibile a Saro Messina, un pasticcere sarebbe stato obbligato ad interrompere la vendita di bibite e caffè all'interno alla propria pasticceria, adiacente al citato bar, poiché, a giudizio degli odierni indagati, sarebbe stato responsabile di un calo degli introiti. In un ulteriore episodio, un imprenditore attivo nel settore del commercio all'ingrosso di prodotti alimentari, sarebbe stato costretto con violenza e minaccia ad interrompere le forniture di carne e lavorati di macelleria ad alcuni ristoranti cittadini per favorire la nascente attività di macelleria di uno degli indagati. Altra fonte di intromissione nel normale svolgimento dell'attività imprenditoriale delle vittime sarebbe stata individuata nella consuetudine di imporre l'assunzione presso i loro esercizi commerciali, di parenti e conoscenti degli indagati, oltre che di impedirne il licenziamento. Il provvedimento restrittivo scaturisce da una complessa attività di indagine, convenzionalmente denominata 'Polema', avviata nell'ottobre 2014 dal nucleo investigativo del comando provinciale carabinieri di Messina, coordinata dalla procura, che ha preso le mosse dalle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Daniele Santovito. Così sarebbe stata provata l’esistenza di un gruppo mafioso attiva nella zona sud del capoluogo peloritano e riconducibile a Giacomo Spartà , ininterrottamente detenuto dal 25 marzo 2003, capo dell'omonimo clan, egemone nel racket dell'usura e delle estorsioni in danno di commercianti ed avventori di sale scommesse, i cui proventi avrebbero concorso ad alimentare la cassa comune del gruppo mafioso. Gli investigatori hanno provato i rapporti tra Raimondo Messina e gli appartenenti alla famiglia Spartà. In una circostanza la moglie del boss, in occasione della cessazione della semilibertà cui Messina era sottoposto, si sarebbe personalmente recata, accompagnata dai propri figli, a fargli visita presso la sua abitazione. Inoltre Messina avrebbe manifestato in più occasioni esplicitamente il proprio rispetto verso Antonio Spartà, fratello del detenuto, anche se non sono stati registrati, nel corso delle indagini, rapporti telefonici incontrandosi faccia a faccia con il fratello. L'inchiesta è coordinata dalla Dda di Messina guidata dal procuratore capo Maurizio de Lucia. Nell'ambito dell'operazione è stato scoperto anche un giro di estorsioni in danno dei giocatori, frequentatori di alcune sale gioco messinesi controllate dalla stessa consorteria. E' stato documentato, infatti, come in un caso alcuni degli indagati avrebbero costretto il titolare di una sala scommesse a cedere loro la proprietà, a causa delle difficoltà economiche dallo stesso palesate, pretendendo anche il pagamento della somma di 5.000 euro, per una serie di giocate effettuate con denaro “a credito” delle società di scommesse. I giocatori sarebbero stati costretti a pagare i debiti di gioco contratti con i gestori delle sale. In particolare, sono stati censiti numerosi episodi in cui il debitore dapprima sarebbe stato esplicitamente minacciato di violenza e ritorsioni fisiche ('ti spezzo le gambe') e successivamente, quando la minaccia si rivelava infruttuosa, i sodali avrebbero fatto esplicito riferimento alla propria fama criminale nonché alla loro appartenenza all'associazione mafiosa. Così gli indagati sarebbero riusciti con sistematicità, a recuperare tutti i crediti vantati, che potevano variate da 3.000 fino a 10.000 euro. Significativa la vicenda che ha visto coinvolta una commerciante, frequentatrice di una delle sale giochi che, a fronte di un debito contratto ad un tavolo da poker illegale, di circa 6.000 euro, sarebbe stata costretta dapprima a versare 10.000 euro in contanti, poi a consegnare un anello del valore di 6.000 euro e infine un orologio di marca del valore di 4.000 euro. Nel corso dell’inchiesta è stato registrato un presunto caso di usura a danno di una commerciante che in evidenti difficoltà economiche. In particolare la vittima, titolare di una nota gioielleria cittadina, per far fronte a piccoli debiti con i fornitori per un importo totale di 4.000 euro, avrebbe dovuto consegnare in soli sei mesi la somma di 8.500 euro, di cui 4.500 a titolo di interessi. Non contenti, alcuni degli odierni indagati hanno costretto l’imprenditrice a consegnare anche alcuni preziosi, per un controvalore commerciale complessivo di ulteriori 1.000 euro. La donna, incoraggiata dall’essere riuscita a far fronte alle pretese degli usurai, avrebbe continuato a ricorrere agli stessi usurai anche in altre occasioni: in particolare in una circostanza, a fronte di un prestito iniziale di 2.000 euro, in sei mesi ha dovuto consegnare 4.500 euro mentre in un’ulteriore episodio ha richiesto un prestito di 5.500 euro restituendone, entro trenta giorni, 9.000. L’organizzazione aveva individuato la propria base logistica, luogo sicuro dove incontrarsi per parlare riservatamente degli affari illeciti, al bar Il Veliero gestito ed amministrato da Raimondo Messina, sebbene formalmente di proprietà della propria madre. Nel corso delle indagini, infatti, è stato registrato un mutamento societario totalmente orchestrato da quest’ultimo, unico punto di riferimento per i professionisti che hanno formalizzato l'operazione senza che sia mai stato richiesto alcun parere alla madre, socia unica dell’impresa e amministratore della stessa. Raimondo Messina si è anche occupato della ristrutturazione del locale, seguendo sempre in prima persona anche i rapporti con i dipendenti , decidendo licenziamenti ed assunzioni, ma anche i fornitori.