Cosa lasciamo di noi agli altri? C'è una possibilità di ritrovare una sacralità della vita in un tempo sempre più usa e getta? Forse scalare la cima di un vulcano può connetterci con quella parte di noi che anela a un infinito, laico o spirituale che sia?
«Volcanic Attitude», festival di cultura contemporanea, che sta mettendo radici - terza edizione grazie alla passione e all'energia delle tre organizzatrici, Helga Franza, Susanna Ravelli, Giulia Restifo supportati dal videomaker Davide Pompejano - coniuga queste domande esistenziali e interfaccia arte e scienza.
Gli scienziati sanno cogliere la poesia e il mistero della natura e la dipingono come fosse un'opera d'arte. Dal canto loro gli artisti canalizzano le energie dei territori restituendole in performance site-specific, come sacerdoti di un rito collettivo. Artisti che si mescolano agli spettatori, che partecipano al festival - che ribalta e scompiglia i ruoli - essi stessi dunque protagonisti dell'esperienza artistica.
«Volcanic» è un festival che apre un immaginario, uno sguardo altro sul mondo e ti spinge, tra odori luciferini di zolfo e cieli pennellati di rosso, a farti domande: una dietro l'altra. Domande intime, domande enigmatiche, domande spesso senza risposta.
Una manifestazione itinerante, e questo ne accresce il fascino: attraversare territori legati da un'attitudine vulcanica, che è carica energetica e forza, ma anche precarietà. Arrendersi all'imprevedibilità della natura e dunque della vita stessa.
Un festival che ha intenti e desideri: lavorare sulla memoria collettiva dei luoghi ancestrali, spesso sfruttati a fini turistici, nella speranza che possano richiamare viaggiatori più rispettosi.
Si parte da Napoli, dominata dal Vesuvio potente e imponderabile e si approda nell'arcipelago delle Eolie, altra terra di vulcani attivi (sono ben quattro).
Prima di andar per mari una visita guidata dal vulcanologo Fabio Sansivero alla sede moderna dell’Osservatorio Vesuviano, nel cuore pulsante delle ricerche sui territori vulcanici e del monitoraggio dei fenomeni sismici dei Campi Flegrei.
Il festival inizia già a bordo con la performance degli artisti Nikolaus Gansterer, Mariella Greil, Peter Kozek, Lucie Strecker, Victor Jaschke attivatori della ricerca «Shaken Grounds», che riesplorano il ruolo degli artisti come sismografi per allenare la percezione dell'interconnessione tra l'uomo e un ambiente geologico imprevedibile.
In nave spazio alla visione e all'immagine, con la proiezione di «1000 Vulcani», racconto fotografico di Emilio Messina, fotografo e documentarista, in dialogo con Gianfilippo De Astis, vulcanologo dell'INGV, che approfondisce le ultime ricerche sul Marsili, vulcano sommerso che s’incrocia sulla rotta di navigazione.
L'isola di Vulcano, fucina di Efesto nella mitologia greca, ma anche bocca dell'inferno nella letteratura più moderna, è approdo e cuore pulsante del festival. Proprio Vulcano, terra dei quattro elementi primordiali, a volte sfregiata da un turismo mordi e fuggi, si riprende la rivincita su chi non rispetta la sua natura «esplosiva» e fumante.
«Hymn to the stone I (ascent to Vulcano)» è la performance in cima al cratere La Fossa, guidata da Ignazio Mortellaro: una lenta processione fino al tramonto lasciando sul sentiero segni temporanei, in un'azione collettiva che coinvolge i visitatori in un rito ancestrale e sonoro «officiato» da Mortellaro, insieme alla performer Clelia Catalano, il volto coperto da una spessa maschera a ricordare l'enigmaticità del luogo.
«Quadrantidi», installazione ambientale di Riccardo Arena, alla Baia di Levante fa riferimento allo sciame meteorico omonimo, una costellazione obsoleta che un tempo figurava sulle antiche carte stellari, ideata dagli astronomi del passato. Un recupero della memoria astrale attraverso una coreografia di molteplici materiali che dialogano con l’ambiente naturale. Una danza astratta costituita da tracce, elementi residuali, segni e strutture precarie.
Ancora tracce nella performance di Loredana Longo, «BLACK PHOENIX», al moletto delle Sabbie Nere. Le sue splendide donne emergono dalle acque calde, affascinanti creature immerse in un irreale silenzio, per poi restare seppellite sotto la sabbia nera. Una simbolica cenere che ricopre quell'umanità che intorno a un vulcano decide di vivere ed è costretta come la mitica Fenice a rinascere dopo ogni eruzione. Le orme dei loro corpi restano disegnate sulla terra prima di essere portate via dal vento di scirocco.
«Storie Endemiche», installazione del fotografo Filippo Romano, indaga la memoria identitaria di Lipari e di Vulcano nelle connessioni meno note con il paesaggio. L'installazione è sistemata sotto la capanna davanti agli sbarchi, «un non luogo», lo definisce Romano, capace di trasformarsi secondo l'occhio di chi osserva. L'Arcangelo Michele, arcano della giustizia e l'immagine del cratere visto dall'osservatorio di Lipari, coniugano l'idea di un vulcano regolatore del territorio, forte elemento che ti riporta al grado zero.
Memorie profonde, ma anche rimozioni collettive. E ancora tracce. Di polvere bianca, stavolta, che sembra cipria impalpabile. Riflettori sulle Cave di Pomice a Lipari, florida fabbrica, via via caduta in disuso fino a diventare un sito di archeologia industriale, ormai meta di yaght e barche cariche di turisti, come ha ricordato Pietro Lo Cascio, naturalista ed esperto eoliano.
Cave di pomice intrise nel Dna di un'intera comunità che a quel benessere ha pagato il prezzo di tanti morti per silicosi, il male di pietra come lo definisce Vincenzo Consolo ne «Il sorriso dell'ignoto marinaio».
Di salute dei mari ha parlato invece Nancy Spanò, biologa marina dell'Università di Messina, ricordando che il mare purifica il sessanta per cento di anidride carbonica dall'aria. Se il mare si ammala tutto il pianeta ne risente, spiega la scienziata, durante una lezione en plein air scalando il cratere La Fossa.
Dall'alto la bellezza delle sette isole lascia davvero senza fiato, ma in basso i nostri fondali sono ricoperti di plastica.
Nello Stretto di Messina ne sono state trovate tracce a 1.800 metri. Filamenti di plastica rinvenuti ovunque anche nel cordone ombelicale e nella placenta delle partorienti. Per pulire una piccola porzione di fondale ci vorrebbero 7 milioni di euro, una cifra da capogiro se pensiamo alla vastità degli oceani.
E i suoni del mare rivivono pure nella performance sonora di Federica Vita, in arte Bluemarina, designer e dj, che miscela electro music con brani vintage e folk.
Si arriva in cima al cratere per l'ultima performance del collettivo «Shaken Grounds». «Trembling Teorema» è una rievocazione dal vivo della scena finale del film di Pasolini del 1968. Nell’ultimo fotogramma il protagonista inciampa tremante sulle pendici di un vulcano nero e grida verso la macchina da presa, cercando la libertà da un ineluttabile regno capitalista. Un urlo liberatorio che ha coinvolto insieme artisti e spettatori e che connette uomo e natura: in sottofondo si sente l’eco del canto degli uccelli marini, che vivono sull’isola per nidificare.
Ogni specie sulla Terra cerca il suo nido e lascia la sua impronta. Le tartarughe tornano 50 anni dopo, quando sono in età fertile, nella spiaggia dove sono nate per depositare, in un luogo della memoria, la traccia della loro esistenza. Spesso finiscono fuori rotta, perché in mezzo secolo il territorio è stato deturpato: così vagano confuse per mari. Un monito per noi umani a non sporcare la sacralità della vita.
Scene dal festival nelle foto di Emilio Messina
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