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Lipari, 6 milioni per la musealizzazione del relitto di Capistello

È stato rinvenuto nel 1966 da Giovanni e Beppe Michelini, Enzo Sole e Santo Vinciguerra nel corso di un’immersione profonda per la ricerca del corallo

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Il relitto di Capistello a Lipari sarà ulteriormente valorizzato, grazie ai fondi destinati nell’ambito dei finanziamenti per lo sviluppo e la coesione destinati dai beni culturali. L’iniziativa è stata portata avanti dal governo Meloni di concerto al governo Schifani. L’obiettivo è puntare alla musealizzazione.

Il relitto della Secca di Capistello è stato rinvenuto nel 1966 da Giovanni e Beppe Michelini, Enzo Sole e Santo Vinciguerra nel corso di un’immersione profonda per la ricerca del corallo tra Lipari e Vulcano. Quando Giovanni Michelini guidò ad una quota di circa sessanta metri la mano di Santo Vinciguerra per far toccare il collo di un’anfora greco-italica nascosta dalla posidonia, il tumulo del carico navale - posto sul ripido pendio di una insidiosa secca - appariva incontaminato. Nascondeva lo scafo di una nave naufragata intorno al 300 a.C. sul versante orientale dell'isola con un carico di anfore e ceramica a vernice nera.

«Da quel momento – ricorda Gianfranco Purpura, già del dipartimento di storia del diritto all’Università di Palermo - iniziarono reiterati tentativi di saccheggio che frequentemente, per l’elevata profondità, si conclusero tragicamente, al punto che il sito fu denominato il relitto maledetto. L'indagine scientifica fu quindi avviata anche per far cessare i recuperi clandestini, avvalendosi del gruppo dei rinvenitori, ma la missione dell'istituto archeologico germanico di Roma, che aveva avuto affidata la direzione dello scavo, fu sospesa poco prima dell’inizio in seguito a un tragico incidente in cui persero la vita Helmut Schlaeger, direttore dell’Istituto, e Udo Graf, suo giovane assistente».

II relitto era ubicato in un fondale fortemente inclinato che degradava fino ad una profondità esplorata di 102 metri e i tedeschi, con la collaborazione degli italiani, avevano delimitato la zona tra i sessanta e i settanta metri di profondità, ma in un’ultima immersione di controllo poco prima dell’inizio previsto dei lavori archeologici, si verificò l’incidente che determinò l’interruzione dei lavori. A causa della particolare natura del fondale, la nave, dopo aver urtato sulla sommità della Secca, affondando aveva rovesciato il suo carico fino ad uno scoglio emergente dal pendio, assestandosi in corrispondenza di un breve pianoro. Il carico appariva sparso per un'area vasta piú di 1200 m2.

«Molti anni più tardi, nel 1976 – puntualizza il docente palermitano - il lavoro fu ripreso con l'intervento americano dell'Institute of Nautical Archaeology (Aina) e della Sub Sea Oil Services, avvalendosi di adeguati mezzi tecnici, tra i quali una campana batiscopica, una camera di decompressione, telefono e televisione a circuito chiuso e addirittura un minisommergibile. Per la prima volta si sperimentavano le nuove tecnologie per l'esplorazione archeologica completa del relitto, che fu conclusa nel 1978. In realtà il sito, oltre a conservare le strutture lignee dello scafo, custodisce ancora numerosi reperti e l’indagine appare ben lungi dall’essersi conclusa del tutto. Le dimensioni originarie della nave dovevano superare di molto quella di Kyrinia (Cipro). Il fasciame appariva semplice e senza alcun rivestimento in piombo; i madieri e le ordinate risultavano alternate. Alcune parti del carico conservavano la posizione di stivaggio, con gruppi di anfore disposte verticalmente e pile di ceramica a vernice nera riposte negli interstizi. Il carico risultava formato essenzialmente da anfore c.d. greco italiche (oltre un centinaio recuperate), contrassegnate da bolli e trattate internamente con resina».

Molte delle anfore erano ancora chiuse da un tappo di sughero sigillato con resina. I bolli impressi sulle anfore, con nomi greci interi o abbreviati (Cháres, Bíon, Eúxenos, Pop, Díon, Pare, Pist), sono stati confrontati con timbri analoghi rinvenuti a Ischia, Selinunte, Taranto e Gela. Oltre alle greco italiche sono state recuperate alcune anfore puniche del tipo Mañá C 1. Si è ipotizzato che alcune anfore avrebbero potuto contenere salsa di pesce di provenienza siciliana. Diverse centinaia di vasi a vernice nera di varie forme - per lo più piatti e coppe, oltre ad alcune kylikes dipinte con motivi vegetali bianchi all'interno e ad alcune lucerne su alto piede sagomato – dimostrano che il carico anforico era integrato da ceramica pregiata che differisce profondamente dai pochi vasi (piatti e brocche) in terracotta acroma, destinati alla cambusa di bordo.

«In base alle dichiarazioni dei rinvenitori – conclude il prof Purpura - lo scafo era dotato di due ancore con ceppi in piombo. Uno è stato recuperato insieme a pesi per reti da pesca, alcune barre in piombo e ad un lingotto di stagno di circa 10 chilogrammi di peso».
Foto notiziarioeolie.it

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