Sul ponte sullo Stretto di Messina don Luigi Ciotti, professionista sciasciano dell’antimafia, ha detto che non unirà due coste, ma due cosche. Libero di pensarla come vuole, ma il ragionamento sul tema dovrebbe contenere una visione più analitica.
Partiamo da una parola usata mille volte: antimafia.
Spogliamola. Che c’è sotto? Troviamo una folla di significati. In prima linea troviamo l’azione dello Stato contro la criminalità organizzata; poi scorgiamo il gruppo di coloro che, nella personale attività lavorativa, operano contro la mafia diffondendo esempi e valori civili; accanto vi è il gruppone di coloro che “ci campano”, cioè di coloro che, pur divulgando concetti costruttivi delle coscienze, hanno il limite di non avere propria identità senza la mafia e di doverla di conseguenza vedere anche quando e dove non c’è; infine, come nuova antimafia, ecco la via diversa e cioè gli elementi di rottura ideologica, che conducano da contro la mafia a senza la mafia.
Esistono parole che possiamo definire assorbenti, il cui concetto, cioè, ne evoca e ne contiene un altro. La parola mafia evoca e contiene la Sicilia e di conseguenza la parola Sicilia proietta l’ombra permanente della mafia. Parlare di Sicilia e tralasciare la mafia, infatti, è tanto inaccettato che è ritenuto da chi “campa” di antimafia una colpa a volte grave.
La parola mafia, dunque, è assorbente di ciò che avviene in Sicilia e ne è divenuta tristo sinonimo. Il che dà a ciò che resta di Cosa nostra ed alla criminalità organizzata – che alla mafia somiglia, ma che mafia non è - molti vantaggi sia in termini di potenza che di ineluttabilità. Ma così va ancora il mondo e chi non si adegua è accusato, quanto meno, di insensibilità culturale. O peggio.
Viviamo, però, sia in un tempo in cui l’attività degli inquirenti ha trovato il giusto passo ed ha assicurato alle galere i vertici criminali siciliani, sia in un tempo in cui parti importanti della società hanno trovato il coraggio di schierarsi contro e resistere alle pressioni mafiose. Viviamo cioè in un tempo in cui è lecito sperare che l’obiettivo liberatorio di Falcone, Borsellino e di altri eroi civili possa essere centrato.
S'è tornato a discutere del ponte sullo stretto di Messina. Si farà o meno, rimane un progetto enorme che certamente farebbe gola ai criminali. Non vi è dubbio.
Come non vi è dubbio che uno Stato che crede in una simile intrapresa non può arrendersi dinanzi al rischio, ma anzi deve affrontarlo e batterlo per affermare le proprie primazìa e civiltà.
Ma può il ponte di Messina essere – contrariamente al timore di don Ciotti – un simbolo antimafia? Come si collega alla rottura ideologica per transitare da contro la mafia a senza la mafia?
Io credo che se la lotta alla criminalità manterrà l’attuale statura, sarà utilissima la prevalenza di un’altra parola assorbente, un’altra parola che, come sino ad oggi la mafia, evochi e contenga la parola Sicilia. Una parola che divenga la sua nuova ombra e che, di conseguenza, depotenzi l’ombra precedente costituita dalla mafia: la parola “ponte”.
Quanti sapremmo pensare Brooklyn senza il suo ponte e quanti l’Egitto senza le piramidi?
Parole e immagini, quindi entità pensate, che ci relazionano con un luogo e ce ne danno il sapore prevalente. Oggi il sapore prevalente della Sicilia è ancora la mafia. Ma se domani fosse il ponte sullo Stretto a identificare la Sicilia in cui lo Stato e la società seguitino ad essere sempre più forti e protagonisti, la mafia avrebbe una sempre minore rendita di posizione e la Sicilia sarebbe sempre più libera.
Dunque un ponte tra le due Sicilie. Quella antimafia di oggi e quella senza mafia di domani. Nell'interesse di tutti, dal Sud al Nord. Quando sarà sarà. Purché sia.
Nella foto una elaborazione grafica del progetto definitivo del ponte sullo Stretto di Messina
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