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La poetessa Yáñez e il marito Sepùlveda: «La parola è un bene prezioso, ci univa»

«Luis era anche un poeta, amava la poesia». La scrittura? «Prima di diventare un mestiere, deve essere una necessità e va coltivata giorno dopo giorno»

Carmen Yanez e Luis Sepulveda

Chi può essere il protagonista di un appuntamento (oggi, ore 20, piazza IX aprile) dal titolo «Anatomia di un uomo libero»?. Luis Sepùlveda, ovviamente, lo scrittore cileno ucciso dalla prima ondata del Covid, nel 2020. A raccontarlo ci sarà la moglie, la poetessa cilena Carmen Yáñez che dialogherà con il fotografo Daniel Mordzinski e con Juan Carlos Reche, direttore dell’Instituto Cervantes di Palermo, moderati da Massimo Vigliar. Pelusa e Lucho – così si chiamavano tra loro – hanno fatto tutto: lottato per la libertà, per un ideale di giustizia contro i poteri forti; hanno fatto un figlio, ballato il tango, subito l’esilio e la tortura, deciso di andare a vivere a Gijòn, in Spagna, anche dopo la liberazione del Cile dal regime di Pinochet. Insomma, in oltre mezzo secolo si sono incontrati, innamorati, sposati, lasciati, ritrovati, risposati. E hanno scritto. «La parola ci univa, la libertà di parola è un bene prezioso», spiega lei. «Per me, per noi, libertà, che è il tema di Taobuk, è una parola immensa, che racchiude tanto».

Un vero assortimento di parole, il vostro: lei poetessa, lui scrittore...
«In realtà Luis era anche un poeta, tutti gli scrittori sono poeti e lui amava la poesia. In casa nostra, mettendo ordine tra le sue cose, ho trovato tante sue poesie in cui il mio Lucho raccontava il suo passaggio a questo mondo. Non è un caso se quando ci siamo conosciuti mi ha dedicato dei versi bellissimi che lasciavano presagire il mio futuro di poetessa. La scrittura, prima di diventare un mestiere, deve essere una necessità e va coltivata giorno dopo giorno».

Anche lei ha fatto incursioni sul terreno della narrativa, pubblicando «Un amore fuori dal tempo», dedicato a suo marito.
«L’ho fatto per ricucire la mia storia con lui e, soprattutto, per esorcizzare la sua perdita che ancora non riesco a metabolizzare. È dura, imparo ogni giorno a convivere con il dolore. La nostra è stata una storia d’amore che ha attraversato un periodo storico importante che era parte della nostra vita, parte di un sogno e di un progetto che ci univano e che hanno consolidato la nostra unione. Ci siamo persi nel cammino dell’esilio per poi recuperare il tempo perduto».

A Taobuk, nel 2014, eravate arrivati assieme per ritirare il Taobuk Award assegnato a Sepùlveda.
Carmen pigia il tasto del «rewind»: «Luis era già stato qui, ed entrambi eravamo emozionatissimi perché quel teatro è di una bellezza indicibile. In Sicilia abbiamo tanti amici».

Più disincantata o disillusa?

«Un po’ di disillusione, se mi guardo attorno, le avverto. I giovani mi danno conforto: tocca a loro non rassegnarsi a quanto di ingiusto e di violento ci propone questo mondo, e non puntare sul consumismo sfrenato, sulla felicità come bene economico, ma riservare maggiore attenzione alla difesa dell’ambiente, alla solidarietà umana. Sta a loro coltivare un’utopia. La sfiducia non deve vincere, i tempi però non sono belli e non dobbiamo dimenticare le atrocità della storia per non ricadere negli stessi errori».

Un briciolo di ottimismo, però, rimane...
«Ascolto sempre il nostro brano preferito: “Gracias a la vida”, una canzone folk cilena di tanto tempo fa interpretata da Violeta Parra. Contiene parole bellissime come “Gracias a la vida que me ha dado tanto” e mi fa pensare all’uomo meraviglioso e generoso che la vita mi ha fatto incontrare».

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